Jacques Lacan, Ancora.

"l'inconscio non è che l'essere pensa, l'inconscio è che l'essere, parlando, gode, e, aggiungo, non vuole saperne di più.
Aggiungo anche che questo vuol dire non sapere assolutamente niente".


J. Lacan, Il Seminario XX, Ancora.


3 nov 2011

SERATE DELLA SEGRETERIA
 2011/2012
SUL FORUM DI MILANO 2011
19 ottobre 2011

I panni sporchi si lavano in casa (detto popolare)
LA CASA DOV'E'??? (Jovanotti-Questa è la mia casa-1997)
di Omar Battisti

"il concetto di non-rapporto merita di essere confrontato con quello di struttura" . Sintetizzo così: la realtà si fonda sull'esclusione di ciò che per ognuno è insopportabile e impossibile dire, ma dove non è operabile quest'esclusione, l'insopportabile viene in primo piano e la realtà con cui ognuno ha a che fare diventa impareggiabile e incondivisibile. Nella nostra epoca si assiste al paradosso che queste due dimensioni sono indistinguibili? Potrebbe essere un altro modo di considerare la confusione tra pubblico e privato? Ecco il legame con il Forum e il senso dell'esergo di questo lavoro.
La con-fusione è stato uno degli aspetti che si è presentato maggiormente nell'esperienza di tirocinio in una
struttura residenziale psichiatrica. Confusione nel dire dei soggetti (questione: Chi parla?), nei loro detti e nella loro relazione con me. Questa confusione si è palesata solo dal momento che ho dato spazio a quello che ognuno veniva a dire, altrimenti si assisteva ad un loro adattamento ai ritmi di vita in comunità, che però lasciava inalterato quello che chiamerei la ripetizione dei meccanismi sintomatici propri ad ognuno di loro. In pratica, quando non coinvolti in qualche attività, era come se ognuno tornasse in un mondo isolato per riprendere un attività del tutto singolare e privata: Francesco a isolarsi a fumare e ascoltare musica in cuffia lontano da tutti, Mauro a vagare senza sosta da un ambiente all'altro ripetendo sempre le solite frasi, Marco a guardare Tv o ascoltare musica per poi fiondarsi, appena arrivava qualcuno, a chiedergli con altrettanta velocità da dove arrivava e dove sarebbe andato dopo. In più c'è da dire che il ritmo della vita in comunità veniva ogni tanto scombussolato dal fatto che ad esempio Francesco esigeva di tornare a casa perché guarito, che Mauro fosse ricoverato in ospedale o che Marco scappasse via come un fulmine.

Riprendo una frase di Miller su Joyce: "Supponiamo che Joyce avesse un sintomo. Non si è fatto curare. [...]. Si è arrangiato da solo con la sua faccenda" . In dialetto, si tratta della questione del godimento e del significante "senza la psicoanalisi" .

Parto da questa citazione di Lacan: "il sintomo, che quest'anno chiamo sinthomo, è ciò che permette di riparare la catena borromea [...] se in due punti abbiamo fatto quello che ho chiamato un errore" , per sviluppare questa domanda: quel funzionamento sintomatico impermeabile all'Altro, che si ripete attraverso un partner preso come mezzo di godimento, ripara necessariamente la catena borromea, oppure ci sono casi in cui questo non avviene così che l'errore continua a sussistere?

Un inciso sul partner come mezzo di godimento. Torno ad una citazione di Lacan: "non c'è un Altro che risponda come partner" , altro modo di dire che non c'è rapporto sessuale, nè nodo borromeo che tenga senza l'ausilio del sintomo. Se fosse valido il contrario ci troveremmo nella condizione in cui l'istinto spingerebbe ogni soggetto verso il proprio partner sessuale naturale. Per l'essere umano, in quanto essere parlante, il linguaggio è alla base del fatto che il soggetto "sia di per se incompleto" , incompletezza che si presenta nella relazione con la realtà dell'organismo, con la verità e con la sessualità. Ciò per il soggetto in quanto determinato dal significante. Ma "a livello del godimento" non è in gioco il legame con l'Altro, con il linguaggio in quanto ordine simbolico, ma si tratta del partner come mezzo di godimento che taglia fuori l'Altro e che fa del sintomo una supplenza alla mancata risposta dell'Altro come partner. Dunque nell'umano al posto dell'istinto si potrebbe mettere il sintomo. A questo livello dunque il sintomo è "una risorsa" che "si tratta non tanto di decifrare [...] quanto di farne uso" . Tutto ciò per evidenziare che "quando si cessa di reperirlo in rapporto all'Ideale, c'è un funzionamento" . Alla luce di ciò riprendo la ripetizione dei meccanismi sintomatici messa in luce per Francesco, Mauro e Marco, per precisare come si siano innescati sulla mia presenza: Francesco veniva a battezzarmi e togliermi Satana ogni volta che mi vedeva, Mauro ripeteva sempre le stesse frasi per poi andarsene con una fragorosa risata davanti alla mia perplessità, Marco si fiondava a chiedermi con insistenza e velocità da dove venivo e dove sarei andato dopo, tanto maggiore quanto più ero reticente a rispondere. Ecco cosa intendo quando parlo di quel funzionamento sintomatico che chiama in causa il partner come mezzo di godimento.

Occorre tenere presente che questo funzionamento è una risorsa che in qualche modo rende vivibile quella realtà singolare marcata da ciò che è insopportabile per ciascuno. Dunque si può considerare come una soluzione. Nel caso di Joyce quel funzionamento non solo gli ha reso vivibile ciò che altrimenti era insopportabile, ma è stato proprio ciò di cui si è servito per diventare lo scrittore che è diventato. Mi chiedo se nel caso di Francesco, di Mauro e di Marco si abbia a che fare con un funzionamento diverso da quello di Joyce: non solo non corregge l'errore di annodamento ma ne riproduce continuamente la causa. Dunque in questi casi si avrebbe a che fare con un funzionamento sintomatico che costituisce una soluzione per far fronte all'insopportabile, ma questa soluzione sarebbe paradossale, ovvero sarebbe proprio ciò che porterebbe al continuo presentarsi di quell'insopportabile che cerca di trattare. Occorre allora che il partner si inventi qualcosa per disinnescare quel funzionamento, per passare da mezzo di godimento a strumento di invenzione di un legame con l'Altro.

Questo disinnesco deve essere calibrato in base alla struttura del soggetto. Infatti, nella schizofrenia quell'insopportabile si presenta a livello dell'impossibilità di separarsi dalla realtà corporea degli organi, per cui "a un certo momento sollevare le palpebre, spostarsi, comincia a porre problemi assolutamente giganteschi" . Nella paranoia invece si avrebbe a che fare con un paradosso dovuto al fatto che "L'immaginario, il simbolico e il reale sono una sola e medesima consistenza" , per cui il fatto stesso di parlare non sarebbe di per sé sufficiente a rendere assente ciò di cui si parla, ma renderebbe sempre più consistente quel godimento che sfugge alla presa del significante, così che gli "è necessario, all'occasione, colpire la Cosa" , per potersene separare. Ora, se nella schizofrenia il corpo è portare dell'insopportabile, nella paranoia può costituire la sede dove ridurre quel godimento che sfugge al significante. Se nella paranoia il delirio porta alla ribalta quel paradosso per cui il fatto stesso di parlare rende presente quel godimento sfuggente, nella schizofrenia potrebbe assolvere alla funzione di dar luogo ad una separazione dalla realtà corporea degli organi.

Riporto dei passaggi che in ogni caso mi pare possono chiarire quanto esposto:

Francesco, quando ho smesso di voler decifrare la presenza di Satana, ha smesso di battezzarmi e togliermi Satana, per iniziare a giocare a carte per vedere chi vince. Quel funzionamento sintomatico è passato dal battezzarmi e togliermi Satana al giocare a carte, con la differenza che con le carte è stato possibile una minima separazione dei tre registri per cui la mia presenza non equivaleva a quella di Satana. Ha allora potuto dire: "tenevo il banco. Puntavano su di me", che è "un giocatore di carte" e "ho messo in cinta una donna" ma non sa l'età dei suoi figli. Lui si presenta come "l'onnipotente" per cui “sono tutti figli miei”. Un residuo: invece di toccarmi con la mano per togliermi Satana, ogni volta che arrivavo e andavo via mi stringeva la mano per salutarmi.

Quando ho smesso di rimanere perplesso per le sue frasi ripetute, chiedevo chi erano le persone che nominava, Mauro si fermava a rispondermi. In seguito mi ha chiesto: "Io sono Mauro?". Al mio non sapere ha replicato: "Io sono un camion, prendo tutto e lo porto con me, l'uomo camion" e da qui ha sviluppato un discorso su quel detto.

Marco, quando ho smesso di preoccuparmi se rispondere o meno alle sue insistenti domande, mi ha detto di voler tornare a Bologna e ha raccontato cosa lo legava a quella città. Un giorno è scappato, ma prima ha detto ben scandito: "io scappo" e si è avviato lentamente fuori dal cancello. Dopo che l'ho guardato e poi ho distolto lo sguardo, è tornato indietro e ha detto di voler andare dalla mamma. Da quel momento lo scappare è stato messo tra parentesi. Ha iniziato a fare "il pagliaccio" perché "fa ridere la gente", cioè a sgretolare le parole in modo da renderle irriconoscibili, creando con esse delle melodie musicali.

Vorrei evidenziare che per disinnescare quel funzionamento sintomatico che passa per l'uso del partner come mezzo di godimento, non c'è un sapere già costituito grazie al quale tagliare i fili giusti. Il partner dovrebbe venire al posto di questo manuale che non c'è per diventare ogni volta una strumento ad hoc che permette di operare quei tagli. È qui che si gioca la nostra possibilità di inventare come renderlo possibile.

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