Jacques Lacan, Ancora.

"l'inconscio non è che l'essere pensa, l'inconscio è che l'essere, parlando, gode, e, aggiungo, non vuole saperne di più.
Aggiungo anche che questo vuol dire non sapere assolutamente niente".


J. Lacan, Il Seminario XX, Ancora.


10 nov 2010

Segreteria SLP RIMINI: Intervento pronunciato in occasione della giornata in preparazione al Convegno di Torino 2010 “DALLA PARTE DELL'INCONSCIO”

LA "COMUNICAZIONE OUTRE" IN UN TESTO DI GIORGIO GABER di Omar Battisti. __________________________________________________________________ Il testo di cui vorrei trattare si chiama "Il porcellino", ed è un monologo tratto da "Anni affollati", la stagione teatrale di Gaber dell'anno 1981. Ho pensato a questo testo per due motivi: il primo è che c'è qualcosa che mi parla dell'inconscio; il secondo è che questo qualcosa è l'ipotesi che Gaber stia parlando segretamente con Freud. "Il porcellino" è realmente presente in scena: in una gabbia è chiuso un porcellino d'india con cui Gaber sta parlando. Questo porcellino è chiamato "Gismondo". L'associazione che mi viene in mente è quella tra Gismondo – Sigismondo e Sigmund. Inoltre c'è una serie che vorrei estrapolare dal testo: parola – gioco – libido – morte. Questa catena mi pare come qualcosa lungo cui scorre una questione che si potrebbe porre su due piani: su un primo piano si tratterebbe di come è possibile farsi capire da un altro; su un altro piano invece si tratterebbe del fatto che manca "la possibilità di dire una cosa a un altro". L'aver chiamato il porcellino "Gismondo" mi porta ad alcune considerazioni: l'altro con cui Gaber sta parlando, e aggiungo con cui sta cercando di farsi capire, è un animale in gabbia che ha un nome che evoca quello di Freud. Gaber gli spiega che "la parola è importante" perchè "Se tu a uno gli fai: , quello sta zitto", ma quando gli intima di mangiare il mandarancio che gli ha portato, di fronte al fatto che il porcellino non lo mangia, considera che "la parola non è tutto" e che "esistono linguaggi più semplici e misteriosi", "quelli della comunicazione ". Ed ecco allora che il richiamo va al gioco. Mi preme evidenziare che, al di là di quello che Gaber dice rispetto al gioco, alla fine di questo passaggio è come se si accorgesse che il porcellino non lo ascoltava, era "distratto", perchè forse è "un pò imbecille". Quindi, si potrebbe dire che questo altro non può capire. Ecco allora che si passa dal gioco alla "libido", al livello di quelli che Gaber nel testo considera come istinti uguali per tutti, dunque un livello dove forse potrebbe capirsi con il porcellino Freud. Tuttavia anche qui viene "respinto" e Gaber comincia una breve disputa dove ricorda l'importanza dell'amore per trovare "un punto di intesa", "una penetrazione". A partire dall'equivoco delle penetrazione, si potrebbe dire che Gaber constata il fallimento della comunicazione con l'altro in questione, il porcellino Freud, e passa a trattare della morte, come "qualcosa che valga per me, per te". Qui vorrei precisare che non è più in questione il fatto di potersi capire con un altro, ma che ci sia qualcosa da cui nessuno può sfuggire, con cui ognuno è costretto a fare i conti. Ma nel proseguo del monologo Gaber parla del fatto che ha visto un porcellino morire e considera che "quando si muore bisogna anche godere" e che "il peggio è per chi assiste". A partire da questa frase è come se ci fosse un repentino cambio di registro, cioè è come se Gaber non stesse più parlando con il porcellino, ma parlasse con un altra dimensione. Infatti continua dicendo: "E mio padre moriva". Di fronte a questa morte Gaber porta in primo piano che "non basta capire, bisognerebbe essere". Quindi a questo livello non sarebbe importante la possibilità di farsi capire, ma forse si potrebbe dire che c'è in gioco la possibilità di condividere un'esperienza di fronte alla quale "mancava la possibilità di dire una cosa ad un altro". Vorrei far presente che non si tratterebbe tanto della mancanza di una parola da dire, ma ancora più radicalmente, è la possibilità stessa del dire che manca. Quindi non è tanto che manca la parola ma che manca proprio il dire. Davanti a questa mancanza radicale, Gaber fa presente nel monologo che allungò una mano verso il padre morente, "ma con paura, senza amore", e aggiunge che "forse è solo questo che possiamo fare senza ingannare noi stessi". Questo passaggio mi evoca la frase di Lacan che l'angoscia è ciò che non inganna, e mi riporta al reale di Lacan. Il monologo termina con Gaber che si chiede: "Ma se non esiste più neanche un essere [...] con cui puoi..." e non termina la frase, come a rincarare la dose sul fatto che manca la possibilità di dire. Ciò che resta è la fine del monologo, con Gaber che ripete per tre volte la frase "sono solo!", l'ultima volta con un grido che mi da i brividi.

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